martedì 18 dicembre 2007

L'ultima estate

Quella sarebbe stata l’ultima estate, per la “Confraternita dei Disadattati”, ma ancora non lo sapevamo.
Ero stato io a scegliere quel nome.
Eravamo sempre gli stessi. Ci ritrovavamo ogni anno nella stessa località di mare, nello stesso stabilimento balneare, sotto gli stessi ombrelloni uno in fila all’altro: io al 12, Michele al 13, Aurora e Walter al 14.
Ultima fila, naturalmente.
Quando avevo proposto di dare una sorta di “definizione” alla nostra piccola comunità mi avevano guardato come se fossi un alieno.
“Perché “dei disadattati”?” chiese Michele, sistemandosi gli occhiali sul naso, un gesto che faceva in maniera automatica, inconsapevolmente.
Rimasi per un attimo in silenzio, cercando le parole giuste per dirlo.
Qualche tempo prima avevo letto un romanzo che parlava di un college americano e dei vari gruppi che si formavano tra gli studenti. Erano tutte confraternite: c’era quella dei “Poeti Maledetti”, quella dei “Precursori”, quella delle “Shakespeare’s Ladies” e via discorrendo.
L’idea mi era piaciuta, l’avevo trovata romanticamente adulta, quindi l’avevo proposta, ma non immaginavo di doverne spiegare il significato e ora mi trovavo in leggero imbarazzo.
Michele era magrissimo, per la sua età. Un dodicenne filiforme con la pelle bianchissima e talmente trasparente che si poteva scorgere la fitta ragnatela azzurrina delle vene che l’attraversava. Aveva quel tipo di pelle che sarebbe rimasta sempre e solo rosata anche dopo tre settimane di esposizione al sole. Era talmente gracile che pensavi bastasse un alito di vento per portarselo via. Vista la sua magrezza, i genitori lo iscrivevano ogni anno ad uno sport diverso, in cui risultava immancabilmente negato; però era imbattibile nei videogiochi.
Aurora e Walter erano fratello e sorella.
La prima volta che vidi Aurora restai un po’deluso: una bambina con un nome così dolce avrebbe dovuto essere per lo meno carina, piena di lentiggini e con una cascata di capelli rossi. Invece mi ritrovai davanti una bambina troppo grassa, con un faccia da luna piena le cui guance tonde e carnose quasi facevano sparire la bocca, tanto questa era piccola e sottile. Aveva capelli neri tagliati a caschetto che, ad essere proprio sinceri, non le donavano assolutamente. E non rideva mai. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare una sola volta in cui l’avessi anche solo vista sorridere.
Walter aveva quasi 13 anni, un anno più della sorella, ma sembrava il più piccolo tra noi, non tanto fisicamente, anche se non poteva minimamente paragonarsi ad Aurora, quanto per via del suo comportamento. Era pieno di tic nervosi associati ad un problema di linguaggio. Non che fosse stupido, sia chiaro, però quando aveva un attacco particolarmente intenso diceva parole a caso, usando un tono di voce imbarazzante. Era una malattia, la sua: la chiamavano Sindrome di Tourette. La cosa che mi lasciava più perplesso, però, era il fatto che nessuno degli altri due pareva farci caso, quasi fossero abituati al suo strano comportamento.
Il che mi faceva pensare di essere io quello più strano, fra tutti.
Ero, come si suol dire, uno di quelli che “batte pari”: nessun tic, nessun difetto fisico particolare (almeno esternamente), intelligenza nella norma.
Eppure doveva esserci in me qualcosa che non andava, visto che preferivo la compagnia di gente così squinternata invece di quella della compagnia che frequentava abitualmente il bar del Bagno Papaia Nana.
“Beh, disadattati perché… – non potevo certo dire la verità – … siamo diversi dagli altri, non seguiamo il gruppo, non facciamo quello che fanno tutti” dissi cercando di essere il più credibile possibile.
Di nuovo Michele si sistemò gli occhiali sul naso: “Oh. Credevo riguardasse il fatto che non siamo tanto normali”.
Deglutii per prendere tempo, ma Aurora si voltò verso di lui: “Cioè?” domandò.
“Preeeeeeeeeeeeeecipitevolissime-vol-men-te!” gridò Walter all’improvviso, accompagnando l’urlo con una rotazione delle braccia che produsse un sensibile spostamento d’aria.
Michele guardò Aurora e rispose: “Ecco, appunto”.
Avendo gli ombrelloni poco distanti dal pergolato del bar, quello in cui c’erano i biliardini e i videogiochi, era chiaro supporre che l’urlo di Walter non fosse passato inosservato, infatti dal gruppetto di ragazzini che vi sostava scoppiò una fragorosa risata corale, mista a parole di dileggio.
Avrei dovuto essere ormai assuefatto alle “uscite” improvvise di Walter, ma ogni volta riscoprivo l’imbarazzo di essergli vicino e sentivo fortissima la tentazione di scappare gridando “non lo conosco, non so chi sia, mi sono perso!”. Cosa mi legasse a loro ancora non riuscivo a capirlo, ma qualcosa doveva esserci per forza, visto che non mi decidevo a staccarmene. Probabilmente mi sentivo l’unica persona in grado di “proteggerli” dalla cattiveria dei ragazzini che ci circondavano e questo gratificava il mio ego pur facendomi sentire contemporaneamente un idiota.
I ragazzini che sostavano sotto il pergolato potevano definirsi davvero ok: avevano tutti un’abbronzatura dorata, costumi alla moda. Le ragazzine, pur non avendo ancora il fisico adatto, sfoggiavano bikini dai colori sgargianti su corpi flessuosi e asciutti. Li osservavo con un misto di invidia e rammarico. Michele, Aurora e Walter erano miei amici ormai da qualche stagione e benché sentissi il desiderio di far parte del gruppo dei ragazzini “bene”, non riuscivo a trovare il coraggio di lasciarli.
“Dite che ce l’hanno con noi?” chiese Aurora.
Walter, dopo un paio di scatti a destra della testa, rispose: “Quasi sicuramente sì”.
Michele esclamò, seraficamente: “Togli pure il “quasi””.
Dopo un intenso scambio di parole, dal gruppetto si staccarono un paio di ragazzini, che si diressero con sicurezza verso di noi. Non so perché, ma sentii subito aria di guai.
“Ehi, psicolabili, che ne direste di una sfida a pallavolo?” chiese un ragazzino dai capelli così biondi da sembrare quasi bianchi; sul volto abbronzato un sorriso talmente bianco da abbagliare.
Sistemandosi nervosamente gli occhiali un paio di volte, Michele mi guardò; Aurora e Walter fecero altrettanto – Walter ci impiegò un po’ di più, visto che il suo braccio destro aveva deciso di fare qualcosa mentre la testa faceva altro - e dopo aver preso consapevolezza dei loro volti smarriti mi sentii investito da un’enorme responsabilità. Cosa avrebbero potuto fare una ragazzina grassa, un ragazzino quasi trasparente, uno che non sapevi mai cosa avrebbe fatto e uno come me?
Soccombere. Nient’altro che soccombere.
Sentii i miei neuroni lavorare a ritmo serratissimo: “Che ne direste, invece – ribattei –, di una sfida ai videogiochi?”. Mentre parlavo non riuscivo a fare a meno di guardare la ragazzina col costume rosa shocking tempestato di perline che stava dietro al biondino. Se Aurora poteva ricordare di tutto meno che l’idea della femminilità, quella ragazzina era ciò che si poteva quasi paragonare a una dea. Lei, la dea, si accorse di come la guardavo e si atteggiò, sistemandosi con civetteria i lunghi capelli castano dorati.
Il biondino finse di pensarci un po’, poi senza scomporsi: “Perché no? Chi perde paga il gelato a tutti”. Se per tutti intendeva che noi quattro avremmo dovuto pagare il gelato a loro, che erano circa una quindicina, mi balzò subito all’occhio che la sfida era alquanto impari e che era stata lanciata al solo scopo di farsi beffe di noi.
“Ok, dateci un momento per fare un po’ di tattica” dissi “ci vediamo al bar tra cinque minuti”.
I due ragazzini si allontanarono con la spavalderia di chi sa di avere già vinto.
“Ragazzi, è il nostro momento, se ci giochiamo bene questa carta, potremmo entrare a far parte del loro gruppo” dissi con tutta la sicurezza di cui disponevo.
“Carta? Ma non è una-a sfida-a ai viiiiiiiiiiiiiiiiiideogiochi?” chiese Walter lanciando in aria le braccia come chi sta facendo una “ola”.
Lo guardai con rassegnazione. “E’ solo un modo di dire. Ai videogiochi, sì… Se vinciamo forse ci accetteranno nel loro gruppo” esclamai.
“Perché, cosa c’è che non va nel nostro, di gruppo?” chiese Michele.
“Io ho fame” intervenne Aurora.
“Nel mio zaino ci sono alcune merendine. – risposi distrattamente ad Aurora, poi mi rivolsi a Michele, imbarazzato – Io… pensavo che magari… avremmo potuto allargare il nostro giro di conoscenze” spiegai.
Michele riprese: “Credevo che ci bastasse la nostra reciproca compagnia”.
“Ma ce-certo – balbettai, preso in contropiede – ci mancherebbe. Se non ti va, se non vi va… non siamo obbligati…”, poi, per stemperare il momento di imbarazzo mi rivolsi ad Aurora “mi passi una merendina, per favore?”
Aurora, dopo aver addentato l’ultimo boccone di trancetto al cioccolato esclamò: “Finite”.
Al momento non capii, erano passati così pochi minuti da quando me l’aveva chiesto!
“Finite? Ce ne sono quattro, nello zaino, ne ho portata una per ognuno” le dissi.
“Finite” ribadì.
Un dubbio legittimo attraversò la mia mente, ma feci finta di non coglierlo perché mi sembrava davvero assurdo pensare che… “Intendi forse dire… che le hai mangiate?” chiesi con tutta la cortesia che mi era possibile.
“Beh, tu non hai detto che si dovevano dividere” rispose lei, togliendo le briciole dalla maglietta bianca su cui campeggiava la scritta glitter “I’m your sweet baby”, dove la parola “baby”, che si trovava all’altezza della sua pancetta, era notevolmente distorta.
Il suo ragionamento non faceva una piega. Lo stupido ero stato io che non avevo pensato di specificare che avrebbe dovuto mangiarne solo una, come prevede la buona creanza, ma la sfida ci attendeva e decisi che avrei ripreso il discorso in un altro momento. Forse.
“Allora che dite? La facciamo questa sfida?” domandai, incerto.
“Barracudaaaaaaaaaaaaa!” gridò Walter, ma ero certissimo che non fosse in risposta alla mia domanda.
“Si può fare” rispose sorridendo Michele e questo mi fece tornare un po’ di buonumore.
“Io non so giocare ai videogiochi. L’unico a cui so giocare è Lady Bug” intervenne Aurora.
“Beh, faremo del nostro meglio” dissi con convinzione.
“Baaaaaaaaaaaaaarracudaaaaaaaaaaaaaaa!” Urlò di nuovo Walter e quello, non si sa come, non si sa perché, divenne il nostro grido di battaglia.

La sfida si rivelò impegnativa ma stimolante. Ognuno di noi sfidò qualcun altro ad un diverso gioco. Io vinsi la gara di biliardino in singolo battendo per 7 – 3, 6 – 4 e 8 – 2 un quattordicenne basso e muscoloso. I miei tre amici, ad ogni mio tiro andato a segno, urlavano “Barracudaaaaaaaaaaaaa!” e Walter, naturalmente, era il più agguerrito, perché era talmente preso dalla frenesia del gioco che sembrava un tarantolato che non riuscisse a stare fermo, il che suscitava la crudele ilarità di tutti gli altri ragazzini.
Aurora, incredibilmente, battè la “mia” dea a Lady Bug con uno score di 175.000 a 113.000. Probabilmente, l’aver mangiato tutte quelle merendine aveva contribuito, oltre ad innalzare il livello del suo colesterolo, anche a migliorare la sua abilità col joystick. Inutile dire che se da un lato esultavo per la vittoria di Aurora, dall’altro ero dispiaciuto per la sconfitta della morettina dai lunghi capelli, ma mi ripromisi che avrei trovato il modo di consolarla, prima o poi.
La sfida sostenuta da Walter fu un disastro: si trovò a dover gareggiare a Speed Race, un videogioco che simula una gara automobilistica, contro una ragazzina bionda e piccolina dall’aspetto dolce e remissivo che si trasformò in una furia quando cominciò la sfida. Fino ad allora non mi ero mai posto il problema di che aspetto avrebbe potuto avere una persona impossessata da un demone, ma guardandola giocare non ebbi nessun dubbio a riguardo: la tensione del gioco le distorceva i lineamenti; se prima il suo viso emanava un bagliore angelico, ora sembrava quello di un guerriero klingon a cui avessero schiacciato un alluce. Walter, scoordinatissimo nei movimenti, riuscì sì a far partire la sua macchina, ma non riuscì mai a farle terminare nemmeno un giro. Se fosse esistito un record per gli incidenti contro qualsiasi ostacolo (alberi, palizzate, muri, case, cani al guinzaglio e persino il traguardo stesso, però al contrario), beh, l’avrebbe vinto lui senza ombra di dubbio.
La sfida cruciale, infine, fu quella tra Michele e il biondino, che scoprimmo chiamarsi Kurt.
Benché italiani, i genitori del ragazzino in questione dovevano avere una passione per tutto ciò che era teutonico, perché i fratelli di Kurt si chiamavano Gertrud, Thor e Siegfrid e di teutonico non avevano solo il nome ma anche il carattere.
Il caso volle che ci fossero ben due videogiochi Mind Trap, uno vicino all’altro, quindi la sfida poté essere giocata in contemporanea.
Da una parte c’eravamo noi a sostenere Michele, dall’altra Kurt e il suo stuolo di seguaci. Erano circa una quindicina in tutto ma quando urlavano sembravano uno stadio pieno di tifosi durante la finale della coppa del mondo.
La partita ebbe inizio. Fin da subito si capì che il livello di entrambi i giocatori era molto alto, perché gli score avevano sempre una differenza che oscillava da -50 a + 50 rispetto a quello dell’altro. La sfida doveva giocarsi in 5 partite e il vincitore doveva aggiudicarsene tre.
La prima partita venne vinta da Kurt, con una differenza di score di soli 30 punti. La seconda partita venne vinta da Michele con uno scarto di 45 punti. La terza partita di nuovo a favore di Michele con uno scarto di soli 10 punti, mentre la quarta se la aggiudicò Kurt per un soffio. Inutile descrivere il nervosismo che si respirava. Michele, tra una pausa e l’altra, non faceva altro che sistemarsi gli occhiali. Li toglieva, li guardava, li puliva, li metteva, se li sistemava.
Io, da buon coach, gli massaggiavo le spalle, le mani, le dita, gli dicevo le solite frasi di circostanza “L’importante è partecipare” oppure “Credici, se ci credi ce la puoi fare” o anche “Secondo gli studiosi di fisica, il calabrone non può volare ma lui questo non lo sa quindi vola lo stesso”. Michele sorrideva, sembrava abbastanza sicuro che l’avrebbe spuntata, ma io vedevo guizzare un muscoletto nervoso a lato del suo occhio sinistro che mi faceva capire che anche lui era teso.
Walter era un tripudio di scatti, di urletti, di passeggiate con cambio di direzione improvvisa e imprevedibile. L’unica persona all’apparenza serena era Aurora, che probabilmente stava pregustando l’idea di poter mangiare di nuovo, a sbafo.
L’ultima partita iniziò sotto un cielo che andava man mano rannuvolandosi. Pesanti cumuli grigi presero ad addensarsi sopra la spiaggia. Michele e Kurt cominciarono la sfida finale agguerriti più che mai. I loro punteggi erano sempre in pareggio, sembrava che avessero mani, dita e mente in connessione fra loro, da quanto era simile il loro modo di giocare. Gli ostacoli nemici venivano eliminati senza pietà uno dietro l’altro, senza mai un errore.
Poi avvenne il miracolo.
Non si sa quale fu la causa, se una goccia di sudore, un insetto o un raggio di sole che fece per un istante capolino da dietro la coltre di nubi, fatto sta che Kurt chiuse gli occhi un istante più lungo del dovuto e fu la disfatta. Perse il ritmo nei colpi e venne colpito a sua volta, perdendo alcune vite. Michele, invece, continuava a colpire, colpire, colpire senza mai sbagliare.
La vittoria di Michele fu salutata con grida e strepiti di esultanza sia da parte mia che da parte di Walter. Dimentico dell’imbarazzo che provavo quando Walter veniva preso dai suoi attacchi, lo abbracciai saltando assieme a lui. Mentre saltavo esultante, gridando “Barracuda, Barracuda!!!”, riuscii a scorgere con la coda dell’occhio Aurora che addentava un grosso cornetto al cioccolato con granella alla nocciola.
Non aveva perso un istante.
Nel momento stesso in cui Kurt aveva chiuso gli occhi, lei aveva intuito tutto ed era andata a prendersi il meritato gelato gratis.
Inutile dire che la vittoria di Michele non venne osannata altrettanto felicemente dalla controparte. Anzi, Kurt, dopo aver preso a pugni il videogioco, si voltò verso di noi e minacciò: “Non finisce qui”, e si allontanò nervosamente, seguito dai suoi amici.
In quel momento un tuono lacerò il silenzio e Michele ci gridò: “A casa mia, andiamo!” e tutti cominciammo a correre, tranne naturalmente Aurora, che ci seguì placidamente, continuando a mangiare il suo cornetto.
La casa di Michele era una bella villetta in mattoni rossi, circondata da un giardino molto curato.
Al contrario di me, Aurora e Walter, che venivamo al mare solo durante le vacanze estive, lui ci abitava tutto l’anno. Ci chiudemmo subito in camera sua e, una volta dentro, restammo per un attimo a bocca aperta. Tutta la parete sopra il letto di Michele era tappezzata da fasce colorate. Lì per lì non riuscii a capire cosa fossero. Avevano tutto l’aspetto delle fasce che le miss indossano durante i concorsi di bellezza, ma le frasi che vi si leggevano sopra non avevano nessuna inerenza a nessun tipo di concorso.
“Gli amici del biliardo ti ricorderanno per sempre”.
“Ora potrai giocare a bocce con gli angeli”.
“Quando verrà il mio momento so che sarai lì ad attendermi”.
“R.I.P.”
Ogni fascia aveva il testo scritto in maniera preziosa, chi con le lettere in oro, chi in argento, chi con la scritta a rilievo. Le fasce erano in stoffa o in plastica, a seconda del gusto e della disponibilità economica delle persone che le aveva richieste.
Dopo aver letto gran parte delle fasce appese guardai Michele: “Correggimi se sbaglio… ma queste non sono quel tipo di striscioni che la gente mette… sulle corone da morto?” chiesi.
Michele sorrise. “Non sbagli”, rispose, “questa è la mia collezione personale”.
Aurora, che fino a quel momento aveva la bocca troppo impegnata per poter proferire parola, esclamò, sbigottita: “Collezioni fasce da morto?”
“Sì”, rispose con naturalezza Michele, sorridendo, poi proseguì: “Sono sempre stato affascinato dalla fantasia dei messaggi che la gente usa per dare l’ultimo saluto alle persone care. Qui ne vedete alcuni esempi, ma la mia collezione non finisce qui. Ne ho alcune che sono davvero esilaranti. Persino quello di una vedova che ci ha fatto scrivere “Finalmente!”…”
Io ero letteralmente estasiato. Dopo il primo istante di stupore dovuto alla scoperta di questo strano passatempo, cominciai a guardare Michele con occhi diversi.
Non era un ragazzo come gli altri. Forse il suo pallore cadaverico era la conseguenza della sua passione, o forse era solamente un ragazzo troppo “avanti” rispetto a noialtri che pensavamo solo a mangiare o a evitare di sentirci in imbarazzo se qualcuno faceva qualcosa fuori dell’ordinario.
Passammo il resto del pomeriggio a leggere altre fasce da corona mortuaria e a ridere come pazzi. Tutti tranne Aurora, naturalmente, il che mi portò a pensare che dovesse avere qualche problema ai muscoli facciali, ma dopo aver riflettuto pensai che non era possibile, visto come funzionavano bene quando doveva masticare…

Il mattino dopo la giornata era splendida: non un filo di vento, non una nuvola a sporcare il cielo terso.
Io, Michele, Aurora e Walter stavamo giocando pigramente sotto il mio ombrellone. Eravamo assorti in una partita a “Uno” quando una voce ci fece trasalire.
“Ehi, fenomeni!”
Ci voltammo tutti di scatto, tranne Walter che gridò qualcosa, voltandosi dalla parte opposta.
Kurt e altri tre ragazzini ci stavano scrutando con facce poco simpatiche.
“Che ne dite di una gara alla pista di pattinaggio, stasera?” chiese Kurt.
Guardai i miei tre amici, prima di rispondere, ma come sempre loro guardarono me e nessuno di loro fiatò, quindi mi toccò rispondere a nome di tutti: “Perché… no?”
La mia, però, era più una domanda rivolta a Michele, Aurora e Walter, che una risposta vera e propria.
Senza dare a nessuno possibilità di replica, Kurt esclamò: “Perfetto, alle nove alla pista. Ci vediamo stasera. Chi perde paga per tutti”.
Stavo per ricordargli che noi tre non avevamo usufruito della nostra vincita, il giorno prima, ma preferii lasciai cadere il discorso. Ne avremmo riparlato la sera stessa.
Sistemandosi gli occhiali sul naso, Michele confessò: “Io no so andarci, sui pattini. E’ già tanto se mi reggo in piedi. Ho fatto un corso, due anni fa, ma mi facevo così tanti lividi che la mia maestra una volta mi chiese se a casa mi trovavo bene e se coi miei genitori era tutto a posto…”
Aurora si inserì nel discorso: “Io sono bravissima”.
“Wroooooooooooooooooooom” gridò a quel punto Walter, alzandosi in piedi di scatto.
“Io me la cavo. Insomma, non sono un campione, però non sono nemmeno da buttare” dissi.
“Allora non abbiamo di che temere”, rispose Michele sorridendo e spingendo gli occhiali sul naso.
Riprendemmo a giocare a Uno e ci dimenticammo della gara.

La pista di pattinaggio era un ovale di cemento circondato da una palizzata in ferro composta da archi tubolari incrociati alla base, alta circa un metro e trenta, circa. Al centro della pista c’era un altro ovale, più piccolo, anch’esso provvisto di una palizzata alta neanche un metro. Il pavimento della pista era leggermente inclinato così che le curve risultavano leggermente sopraelevate rispetto alle parti in rettilineo. Doveva essere lunga circa 25 metri e larga una decina, ovale centrale compreso.
La musica era assordante e luci intermittenti colorate illuminavano il tutto dall’esterno, dando la sensazione di pattinare in un specie di discoteca all’aperto.
Arrivammo in leggero anticipo e noleggiammo i pattini, tranne Aurora che indossò i suoi. La parte più complicata fu allacciare i pattini ai piedi di Walter perché pareva che i suoi piedi, da seduto, avessero intenzione di fare qualsiasi movimento, tranne che stare fermi, ma alla fine ci riuscimmo.
Michele, dopo aver indossato i suoi, prese a muoversi verso la pista aiutandosi col corrimano mentre io restai indietro a dare una mano a Walter che, con profondo stupore di tutti, sembrava invece perfettamente a suo agio sui pattini, pur muovendosi sempre con traiettorie impazzite.
Una volta entrati in pista ci accorgemmo che Kurt e i suoi tre amici, quelli che avrebbero partecipato alla gara, erano già arrivati. Ci videro e ci si fecero incontro con scioltezza, scivolando tra la gente senza il minimo sforzo. La gara avrebbe dovuto svolgersi in una pista affollata e questo era un fattore a cui non avevo pensato.
Gridando, Kurt disse: “Si devono fare 8 giri di pista. Ogni giro parte dalla cabina del bigliettaio e termina quando la si raggiunge di nuovo. La gara è a staffetta, si comincia in due e gli altri proseguono dopo ogni 2 giri. Vince chi termina l’ottavo giro per primo. Ok?”
“Ok” gridammo noi quattro in coro e Walter aggiunse “Barracuda!”, accompagnando l’urlo con un involontario passo di danza che rischiò di farlo cadere.
Prima di cominciare, ogni squadra si prese qualche minuto per decidere una linea di gara.
“Secondo me” esordii “dovrebbe cominciare Aurora e subito dopo io. Sia io che Aurora ce la caviamo e potremmo cercare di fare un buon tempo così da dare a voi due la possibilità di andare un po’ più piano. Che ne dite?”
Michele e Walter annuirono in silenzio, anche perché parlare e farsi sentire in tutto quel chiasso era pressoché impossibile. Ebbi la sensazione che Michele fosse più pallido del solito, quindi mentre Aurora si dirigeva con sicurezza verso la linea di partenza, io aiutai Michele a raggiungere la postazione e gli domandai: “Tutto bene?”
Michele, pattinando scompostamente attaccato al mio braccio, sorrise cercando di rassicurarmi: “Tutto ok. Vorrà dire che cercherò di correre sempre vicino alla palizzata, per farmi più coraggio”.
“Ottimo”, gli sorrisi, e corsi a dare man forte ad Aurora.
Lei era già sulla linea di partenza e guardava la pista con espressione seria ma tranquilla. Questa volta il suo sfidante era il ragazzino che io avevo battuto a biliardino, ma lei non sembrava minimamente impressionata.
“Credi di potercela fare?” le urlai.
“Ho fatto il pieno di energia e sui pattini sono una campionessa” disse senza distogliere lo sguardo dalla pista, poi si voltò a guardarmi e in quel momento mi parve di scorgere nei suoi occhi un barlume di allegria, ma sono più propenso a credere che fui confuso dal variare delle luci colorate.
“Fidati”, mi disse, e tornò a guardare la pista.
Kurt, dal bordo pista, addossato al gabbiotto del bigliettaio cominciò a contare:
“Tre – due – uno… VIA!”
Aurora e il suo avversario partirono contemporaneamente e benché il ragazzino fosse ben messo, fisicamente, lei sui pattini acquisiva una grazia e una velocità che mai ci si sarebbe aspettati da una ragazzina così grassa. Alla fine del primo giro di pista Aurora aveva più di metà giro di vantaggio rispetto al suo avversario. Appena passati, io mi sistemai sulla linea di partenza e, con profondo stupore, mi accorsi che il mio rivale era nientemeno che la bellissima ragazzina dai lunghi capelli castani, che in quel momento mi stava guardando con aria di sfida.
“Non è possibile – pensai – questo è un altro colpo basso. Passi far gareggiare Aurora con un ragazzo, che la stazza è abbastanza simile per entrambi, ma io come faccio a non avere pietà per una ragazza così… deliziosa?”
Credo che l’angoscia mi si leggesse in faccia, perché la bellissima dea che avevo a fianco cominciò a ridere sonoramente. A quel punto dentro di me qualcosa si mosse; forse orgoglio, forse competitività, forse voglia di rivalsa, ma decisi che non mi sarei fatto distrarre né da lei né da nessun altro. Sarei andato dritto per la mia strada e avrei cercato di accumulare più vantaggio possibile per facilitare il compito a Walter e a Michele.
Avevo appena terminato di pensare a tutto questo quando mi accorsi che Aurora aveva quasi terminato il suo secondo giro. Mi misi in posizione e partii a razzo appena lei toccò la mia mano stesa verso di lei. La ragazzina dai lunghi capelli dovette aspettare quasi un giro prima di partire, il vantaggio di Aurora aveva del miracoloso! Corsi come un pazzo più veloce che potei. Alla fine del primo giro riuscii a scorgere davanti a me la mia avversaria e la doppiai con un urlo di soddisfazione. Mentre mi avvicinavo alla linea di arrivo vidi Walter già pronto a prendere il mio posto. Gli toccai la mano gridando “Barracudaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!” con tutto il fiato che avevo in corpo e lui partì con sicurezza, rispondendo al mio grido con un altro “Barracudaaaaaaaaaaaaaaa!”
Mi fermai ansimante e sudato e Michele mi raggiunse piano piano. Entrambi osservammo il nostro amico farsi strada a strattoni, le braccia che si muovevano in modo scomposto, le gambe che si allargavano e si stringevano senza nessuna logica. Ma lui miracolosamente restava in piedi.
Con la mia gara eravamo riusciti ad avere un giro e mezzo di vantaggio che però Walter stava pian piano divorando. Alla fine del suo primo giro il vantaggio si era ridotto a poco meno di un giro.
Michele si mise in posizione sulla linea di partenza. Io lo incalzavo “Non guardare l’avversario, non pensare alla corsa, non temere se vai piano. Tu cerca di pattinare meglio che puoi e non pensare a niente,ok?” gli gridai.
Michele si sistemò gli occhiali e annuì silenziosamente. Il suo avversario era Thor, il biondissimo fratellino minore di Kurt, ma Michele non lo degnò di un solo sguardo. Intorno a noi, adesso, era tutto un urlare di ragazzini che incitavano Thor, le loro urla erano udibilissime nonostante il volume della musica. Walter stava arrivando. Il vantaggio si era ridotto a solo mezzo giro di pista.
Toccò la mano di Michele e lui partì, prima un po’ insicuro, poi prendendo man mano confidenza con la pista. Thor partì di lì a poco e si capì immediatamente che piega avrebbe preso la gara: era piccolo ma molto determinato e, soprattutto, velocissimo.
Michele era già alla prima curva e Thor stava per terminare il rettilineo. Michele imboccò il rettilineo prima della curva finale, seguito dappresso dal piccolo biondo teutonico.
Successe tutto così velocemente che nessuno capì come avvenne.
Michele, per evitare una bambina che viaggiava di fronte a lui si sporse un po’ al centro pista, proprio mentre da dietro arrivava il picolo Thor che non poté evitarlo.
Lo scontro fu così violento che Michele si ritrovò catapultato al centro dell’ovale piccolo, ma solo dopo aver urtato la balaustra bassa.
Mi lanciai in mezzo alla pista, seguito a ruota da Aurora e raggiunsi Michele.
Entrai nell’ovale e lo presi tra le braccia: non respirava. Provai a chiamarlo. Il ritornello della canzone continuava a ripetere “I wanna dance dance dance till the sun goes down uh-ooooh… uh-ooooh” e io riuscivo solo a pensare che era una canzone troppo stupida per fare da colonna sonora alla morte del mio migliore amico.
Alzai la testa verso Aurora: stava ridendo. La guardai sgomento: com’era possibile ridere in una situazione così tragica? Può la mente umana essere così stupida da scegliere un momento così sbagliato per esternare un’emozione così sbagliata? Poi mi accorsi che rideva e piangeva nello stesso momento. Io non ce la facevo. Non riuscivo a piangere.. Mi sembrava tutto così strano, così assurdo. Mi guardai intorno e vidi che Kurt, i suoi fratelli, il ragazzino tarchiato e la mia splendida dea osservavano la scena ammutoliti. A quel punto piansi.

Quella fu l’ultima estate della “Confraternita dei Disadattati”. Non ci fu, come nei film, un’ultima scena con la scritta fine, ma una striscia colorata azzurra con una scritta a caratteri dorati a coprire una piccola bara.
La scritta diceva: “Barracuda!”

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